Franco Battiato è un cantautore. Ma è anche molto di più: compositore, poeta, interprete di una musica inventata da lui ed emulata tutt’ora in terra italica e all’estero.
Persona dalla sconfinata cultura, ha sdoganato l’esoterismo, la scienza e la filosofia come argomenti di interi album; fa parte di quella scuola di compositori di cui pochi altri sono ancora in vita, quali ad esempio Brian Eno. Siciliano, avanguardista nell’animo, vanta una carriera lunghissima: è in attività, senza pause, dal 1965. Deve a Giorgio Gaber l’incipit, il la, che venne dato alla sua carriera: ne notò il talento dietro le canzoni di protesta cantate nel 1967 davanti alle scuole nel 1967. Proveniente da un background prog, fu in grado di rivoluzionare il modo di far canzone, poesia, e letteratura, rendendo pop di classe o synth raffinato ciò che ora, nel mondo dell’Internet dove chiunque può essere artista, definiamo slices of life ma che in realtà si chiamerebbe frammento, e soprattutto il flusso di coscienza. Siamo o non siamo come Cammelli in una Grondaia?
Dai lontanissimi anni ‘60, fu tutto in ascesa. Una lunghissima accelerazione spazio temporale, che mescola raggi cosmici, biochimica e cantautorato: si parte con Fetus, criticatissimo album avantgarde che descrive il ciclo cellulare di una morula, di una blastula, e via via di un embrione, si passa per La Voce del Padrone e Ferro Battuto e Fisiognomica, e si finisce con Joe Patti’s experimental group, album del 2014 e ultimo di inediti. Nel 2015 uscì Anthology, la discografia definitiva dei brani più rappresentativi della sconfinata carriera del cantautore. Antologia che fu prontamente mia.
Teorico dell’esistenzialismo non meno di Heidegger o di Dostoevskij, ha cercato con leggerezza ed eleganza il centro dell’essere umano, nei deserti della Tunisia, nelle lande dove ballano i dervisci, nei silenzi mistici dettati dalla sua voce monacale.
Infinite le sue collaborazioni, a partire dalla sua prima band, i jazz-prog Osage Tribe, passando per Giusto Pio, violinista assurto a leggenda, ad Angelo Branduardi (non disdegnando il medioeval rock di quest’ultimo), per Manlio Sgalambro, filosofo col quale scrisse L’ombrello e la macchina da cucire e più o meno quasi tutti i testi fino al 2012, con incursioni nel cinema in quanto è regista di tutti i suoi videoclip, e il fruttuoso sodalizio con l’eclettico Alejandro Jodorowski (scrittore di fumetti preferito della scrivente N.d.R) che fu attore protagonista di Musikanten e di Niente è come Sembra, film di Battiato stesso.
Infinitamente ardua è stata l’impresa di scegliere dieci canzoni del Nostro; ma iniziamo questo viaggio nella discografia di uno dei migliori artisti che l’Italia abbia mai prodotto.
Energia, tratta da Fetus uscito per Bla Bla, rappresenta l’esordio di Battiato: trenta minuti di biochimica messa in musica. Una delle operazioni più coraggiose di sempre della storia della musica, dare voce ad un embrione che si innesta nell’utero. Brano ed album completamente elettronici, prende il meglio che a livello tecnologico il 1971 potesse offrire, mescolandola con fiati e chitarre, suoni campionati, battiti rapidi di cuori minuscoli; un Franco Battiato più adulto dirà che, probabilmente, negli anni ’80, nessuno gli avrebbe pubblicato Fetus.
Proseguiamo con una hit: L’Era del Cinghiale Bianco, dall’omonimo album del 1979. Brano orecchiabile, all’apparenza semplicissimo, vede la presenza dello splendido violino di Giusto Pio ed una geniale fusione di new wave e cantautorato rock: un sound unico tutt’oggi, assolutamente sorprendente all’epoca. Il cinghiale, in questo caso, è un animale totem: l’intero album ruota attorno a tale creatura, sacra per la mitologia celtica (tanto che anche re Riccardo III scelse il cinghiale come suo simbolo araldico), e rappresentante uno degli avatar di Vishnù, Varāha, figura in grado di riportare l’equilibrio nel mondo del contingente.
Da Patriots, del 1980, è tratta Up Patriots to Arms, un vero e proprio manifesto dell’ateismo e della centralità dell’intelletto umano: “la fantasia dei popoli che è giunta fino a noi non viene dalle stelle”. L’album è arabeggiante, il sound è da Mille e una Notte, e molti sono i rimandi alle teocrazie oscurantiste, come quelle dell’Ayatollah Khomeini; forte è anche la critica al pop senza contenuto che aveva cominciato a scalare le classifiche nei tardi anni ’70, ai falsi addetti alla cultura, agli ignoranti direttori artistici che credono di incantare il pubblico solo con fumi e raggi laser. “Chi vi credete che noi siamo, per i capelli che portiamo? Noi siamo delle lucciole che stanno nelle tenebre!” E’ anche un richiamo alle armi: veri intellettuali, vere persone di cultura, veri amanti della conoscenza, imbracciate le vostre armi.
La Voce del Padrone (1981) è forse uno dei pilastri che reggono la musica italiana tutta. Un album splendido, una corona tempestata di gemme preziosissime, e, fra tutte, brilla con sincera lucenza Gli Uccelli. Accorata e realistica descrizione del volo degli uccelli, è una delicata e semplice ballata che si fa di voce e di chitarra, col frullio delle ali dei volatili, è un brano in grado di estendere un fenomeno naturale così apparentemente scontato alla genialità della meccanica newtoniana. Chissà se in altri pianeti esistono uccelli, chissà se il nostro sistema solare è unico come crediamo che sia.
Ebbene, siamo ormai nel vivo della carriera del Nostro: siamo a L’arca di Noè, del 1982, forse l’album meno compreso di sempre poiché marcatamente pop; un po’ la stessa condanna che affligge ora Max Gazzè o i Baustelle. Avremmo potuto scegliere Voglio Vederti Danzare, brano dance reso ancor più danzereccio dagli Eiffel 65, ma non avrebbe apportato alcuna utilità al presente articolo: la mia scelta è dunque ricaduta su New Frontiers, brano che mescola new wave, pop, e prog, in un mix geniale.
“L’Evoluzione sociale non serve al popolo se non è preceduta da un’evoluzione di pensiero.” Il brano nomina la nouvelle vague, una corrente cinematografica francese degli anni ‘50 cui aderirono artisti come Truffaut e Godard, e che ha prodotto capolavori come La Jeteè: il mediometraggio che ispirerà L’esercito delle Dodici Scimmie di Terry Gilliam; l’intera poetica è imperniata sul rappresentare il tempo nella maniera più sincera possibile. Il brano è un ossimoro in musica che mescola esempi di personaggi tremebondi quali uno stupratore seriale che cerca “l’amore dentro i parchi e lungo i viali”, incitando l’ascoltatore a sviluppare la propria capacità di bloccare il tempo per avere migliori prestazioni sessuali (un viagra metafisico), mentre, nel videoclip, uomini arabi algerini (quindi francofoni) giocano tranquillamente a scacchi e suonano per Battiato. Alla fine del brano, l’ascoltatore dovrebbe essere diventato un superuomo nietzschiano: Le pareti del cervello non hanno più finestre.
Il richiamo al mondo extrasensoriale è una costante nella poetica di Franco Battiato, ma è ripreso in modo più terreno in Orizzonti Perduti, album di ispirazione siciliana, del 1983, di cui è rappresentativa Un’altra vita, brano elettronico ed orchestrale, in cui l’autore si prefigge la fuga dalla realtà: brano quantomai attuale nel caotico mondo delle metropoli cittadine, “su divani abbandonati a telecomandi in mano, storie di sottofondo”, cui Battiato fa un’impietosa descrizione, rappresenta la volontà dell’uomo moderno di fuggire da questo mondo tangibile: appunto attraverso i wormhole nel tempo, silenzioso protagonista di tutta la produzione di Franco Battiato.
No time no space, Mondi Lontanissimi del 1985, rende il tempo interlocutore silenzioso dell’umanità che narra la propria epopea spaziale: la voglia di perdersi fra le stelle, in un brano orchestrale ed elettronico maestoso, un futuro non ancora realizzato di astronavi parcheggiate, una visione positivista della tecnologia che rappresenta un hapax in tutta la discografia di Battiato, e che, oramai, nella cultura moderna, è totalmente persa. Una solitaria Torre Eiffel in un mondo che non esisterà mai. Eppure, se sappiamo comandare il tempo, c’è ancora la possibilità che quella dimensione sia esistita o esisterà.
Dovranno passare tre anni prima del nuovo album di inediti di Battiato, Fisiognomica, del 1988. Il titolo è tratto da una contestata opera di Aristotele da cui Cesare Lombroso prese ispirazione per la sua pseudoscienza, che si prefigurava di comprendere le inclinazioni di una persona basandosi sul suo aspetto; album atmosferico e mistico, contiene la splendida E Ti Vengo a Cercare. Arabeggiante eppure classica nei cori ecclesiastici finali, contiene un monologo rivolto ad un Dio che non si sa se esista, ma che, in fine, si può immaginare non essere altro che l’uomo stesso, o, per meglio dire, la persona amata. La libera interpretazione è un tocco geniale da parte di Franco Battiato, che mette d’accordo religiosi ed agnostici, dando, come sempre, una sferzata al decadimento dei costumi che l’artista vedeva negli anni ’80.
Profetica è Povera Patria, del 1991, da Come un Cammello in una Grondaia. Cruda descrizione della politica italiana, dello strapotere di pochi disinteressati al bene comune, di un’oligorchia composta di ignoranti che guiderà l’Italia all’eccidio di massa: un’Italia morente, il cui “stivale affonda nel fango dei maiali”. Fortemente negativa, il refrain ripete “Non cambierà”: la critica non è al capitalismo in sé, ma alla corruzione dilagante, alle dittature.
Siamo vicini alla fine del nostro viaggio nel mondo di Franco Battiato, e dopo tanta selezione di brani minimal, torniamo ai ritmi che l’hanno reso famoso: Auto da Fè tratta da Gommalacca, del 1998. Brano fusion, mescola rock, fatto da chitarre elettriche acide, archi sincopati barocchi, un’operazione difficoltosa ancora oggi. L’auto da fè è la tipica cerimonia dell’Inquisizione Spagnola, svolta di fronte al popolo, in cui il giudicato non aveva possiblità di pentirsi: l’accostamento di tali tragici avvenimenti al più banale concetto di “relazione finita” va perfettamente ad incastrarsi nello slice of life spesso rappresentato nella discografia di Franco Battiato. Ex aequo da Gommalacca va nominata Il Mantello e la Spiga, brano contenenti derive metal rarissime nel Nostro: una summa di riferimenti culturali più o meno complessi, a partire dall’incipit delle Bucoliche di Publio Virgilio Marone (“Sotto l’ombra sospiravi, pastore di ombre e di sotterranei segreti), è, di nuovo, una parafrasi atea del Vangelo di Matteo. Là dove Gesù disse “lasciate tutto e venite a me” nel reclutare gli apostoli, qui Battiato invita l’ascoltatore a seguire se stessi, le proprie aspirazioni. Ora il tempo è amico, è alleato di un Franco Battiato più che maturo: può essere modificato a proprio piacimento, può essere percorso in tutte le innumerevoli vie che esso presenta all’ideale protagonista.
Ho lasciato per ultima la hit, forse l’unica canzone che i più conoscono di Franco Battiato. Su, lo so che ce l’avete sulla punta della lingua…
“Ti proteggerò dalle paura dell’ipocondria, dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via”. Un brano d’amore universale, il cui testo è stato scritto da Manlio Sgalambro, La Cura, tratto da L’Imboscata del 1996. Una delle canzoni più belle della musica italiana, non esistono parole adatte per descriverla: vi lascio dunque con le sue note, e con l’augurio che ognuno di voi lettori abbia qualcuno in mente mentre l’ascolta.
Perché sei un essere speciale, ed io avrò cura di te.
Giulia Della Pelle
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