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L’aspetto strutturalmente dicotomico di Billie Eilish

by Antonio Sartori
Billie Eilish

Billie Eilish è a tutti gli effetti una star internazionale. I suoi singoli contano centinaia di milioni di visualizzazioni, il suo primo album ufficiale è uscito ormai un mese fa e in queste settimane ha persino partecipato al Coachella, uno dei festival più importanti al mondo.

Dopo tutte le migliaia di parole spese su di lei e sulla sua musica, perché ha senso parlarne ancora?

Il mio primo incontro con Billie Eilish è stato puramente casuale: la prima volta che mi è capitato di ascoltare coscientemente una sua canzone -avendo cioè la certezza che fosse lei a cantare- è stato poco prima della cruciale finalissima di un torneo su FIFA19 fra amici.
Il ricordo è associato all’impressione che “You should see me in a crown” (questo il nome del singolo inserito nella colonna sonora del gioco) fosse nettamente il brano migliore fra i tanti selezionati, quello più innovativo per sonorità e per approccio.

Da lì iniziò il mio progressivamente maggiore innamoramento per quella sedicenne così eclettica, e dopo aver divorato i brani precedenti attendevo con ansiosa ingordigia qualsiasi nuova creazione che Billie fosse in grado di produrre.

Non è difficile da immaginare quindi come il mio entusiasmo potesse essere alle stelle nel momento di uscita del disco: mi lanciai in un ascolto usurante -per me e per le canzoni- dissezionando ogni parola dei testi, spendendomi al massimo per captare tutti i suoni impiegati e tentando strenuamente di interpretare ogni minimo dettaglio, mosso dal desiderio ossessivo di inquadrare nel modo più completo quello che ritenni essere un album capolavoro, o quantomeno uno dei migliori guardando agli ultimi 10 anni.

Era ormai diventato impossibile esimermi dall’incensare pubblicamente “When we all fall asleep, where do we go?”, strabuzzando gli occhi ai poveri malcapitati che osassero rispondere “chi?” alle mie sperticate odi nei confronti di Billie Eilish.

Ma come spesso accade dopo una grande festa, accompagnati verso il letto di casa da quelle brezze rischiaranti che solo la notte è capace di offrire, si ripensa agli eventi da poco passati e mestamente si giunge a fare i conti con la coscienza della propria ebbrezza: così mi ritrovai, con il gravoso interrogativo dell’essere stato inghiottito da una spettacolare ubriacatura, musicale s’intenda.

All’allungarsi dello spettro del dubbio, presi la drastica decisione di non recensire l’album, e di provare ad affrontare la questione qualche tempo dopo, servendomi di uno sguardo non necessariamente più lucido, ma di per certo nuovo.

E dunque eccoci qui: la prima analisi maturata con il tempo riguarda l’aspetto strutturalmente dicotomico di Billie Eilish.
Billie è un’artista divisiva, e non solamente per una qualche scelta di marketing, ma sopratutto a causa della sua stessa natura artistica, profondamente divisa.
Le fratture della giovane artista sono molteplici, ma giocano tutte sull’ambivalenza cruciale di esterno e interno.

Si prenda ad esempio l’aspetto dei live, non di certo il lato più discusso di Billie Eilish: sin dal primo ascolto, risulta evidente che quel suo strepitoso sussurrato, capace di toccare alcune corde emotive abissali, possa rendere quasi esclusivamente nella sua versione studio, quasi a sottolineare che tutta la profondità delle canzoni possa risiedere solo nell’intimità di ognuno, da esprimersi durante un ascolto singolo e privato; di contro, tutta la delicatezza fragilissima che l’artista americana costruisce all’interno dell’album viene minacciata grandemente dalla trasposizione live, dove Eilish si ritrova costretta a sopperire un’evidente impossibilità comunicativa di pari livello con alcuni -altri- strumenti, quelli tipici da concerto (balletti vari, socializzazione con il pubblico…) che in sé non sono nulla di male, ma che risultano applicati in maniera estremamente forzata.
Interno ed esterno, appunto.

E questo contrasto stridente fra la cupa e sensibile interiorità e la plastica -detonante ma posticcia- esteriorità è anche lo stesso che domina un altro grande tema legato a Billie Eilish, questa volta ben più dibattuto: il refrain della depressione, della debolezza psicologica e in generale delle varie difficoltà adolescenziali.

Qua il paradosso dilaniante è sì presente, ma pare rovesciato: la parte più intima, legata all’opera (e dunque alle canzoni), viene estroiettata nella sua generalizzazione comune, perdendo così il suo connotato personale ed esistentivo.

Di contro, l’elevata esposizione mediatica dell’artista, che in fin dei conti offre di sé un’immagine prettamente solare e socievole, fallisce nel suo essere maschera e disvela senza nemmeno troppo impegno tutto il reale disagio adolescenziale che sì, è condiviso, ma riesce a passare come intimo in quanto mediato dalle esperienze irriducibilmente personali di chi le vive.
È come se l’intimità si nascondesse dietro lo slancio ossessivo e involontariamente pornografico di se stessa, per poi invece rivelarsi attraverso quelle forzature mediatiche che spesso fungono da carcerieri emozionali.

E questa duplice analisi non può che portarci a quella che forse si delinea come rottura primaria di Billie Eilish e di ogni celebrità moderna: quella fra artista e personaggio.
Una dualità forse trita, ma essenziale per quello che deve essere una comprensione quantomeno sincera della modernità artistica.
Come evidenziato in precedenza, l’aspetto divisivo di Billie Eilish, oltre ad identificarsi con una biforcazione che è propria di molti, consiste primariamente nella sua forse inconsapevole ambiguità del sezionarsi.

Di fatto, ciò che all’apparenza avrebbe aiutato l’artista a distinguersi dalla massa e riuscire a ottenere lo straordinario successo attuale, ovvero il personaggio, è invece ciò che Billie Eilish deve temere di più: sono tutt’ora convinto dell’effettiva qualità di un album che, pur non rappresentando una chiave di svolta epocale come molti -esagerando- tendono a segnalare, apporta molti elementi interessanti e innovativi, costituendosi come importantissimo mattone di quel nobile progetto di riabilitazione della musica pop, non solo alle orecchie del grande pubblico, ma anche a quelle della cosiddetta critica e in generale ai timpani più raffinati.

Tuttavia, l’eccessivo ostentare di una personalità che debba essere necessariamente fuori dalla norma, puntando tutto sulla forzatura di quel paradosso ormai sgualcito per il quale l’accettazione del banale e la strenua devozione alle tendenze della massa sia l’unico reale nuovo metodo di distinzione, e il passaggio per l’enumerazione d’una lunga serie di luoghi comuni rivisitati in salsa post-horror, a metà fra il dark e l’infantile, sono elementi che rischiano realmente di mettere in ombra tutto il gran lavoro di una ragazza che -ricordiamo- è ancora diciassettenne e che alleggerita da queste gravose catene potrebbe davvero avviare una carriera assolutamente fenomenale.

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