Ci risiamo, dopo una settimana di stop in cui abbiamo riproposto un vecchio ascolto, tornano i Discopatici, la rubrica per tutti i malati di vinile come noi di Inside Music, come me al pc.
Torno a scriverne perché è la cosa che mi riesce più facile fare, un rito rassicurante come tutte le gestualità che diventano parte integrante della tua quotidianità. Alzare la testina del giradischi, inserire l’LP di cui più sento l’esigenza di ascolto e versarmi qualcosa da bere mentre assaporo note e gusto. La scelta questa settimana post ferragosto è ricaduta su un evergreen del mio sviluppo uditivo e dei miei gusti musicali: Absolution, targato Matthew Bellamy e soci.
Sono le 19, il sole sta per volgere al tramonto ed io sono appena rincasata. Terrazza vista mare, apro il frigorifero e in freddo c’è un Grechetto Umbro IGT della cantina Scacciadiavoli ad attendermi. Partono i 22 secondi lapidari di “Intro” e salta il tappo del mio bianco, mentre inizio ad annusare odore di mare, di bagnoschiuma all’olio di jojoba e abbronzatura da protezione dieci (quella cinquanta la spalmo solo sul cuore).
Neanche il tempo di calarmi nell’atmosfera della grigia Inghilterra della band, che parte una mina vagante, “Apocalypse Please” che riesce a rendere davvero apocalittico tutto ciò che mi è intorno.
A proposito di apocalisse, questo disco è uscito nel 2003, praticamente l’anno del mio esordio liceale. Una coincidenza che fa sorridere anche me se ripenso agli eventi delle ultime settimane, catapultata indietro di quindici anni, con meno complessi e molte più certezze, come quella che i Muse sono uno dei gruppi della vita. E che il fascino degli occhi blu ha esattamente un suo punto di inizio, che ricade nello stesso anno di questo vinile. Ma bando alle ciance, ecco il pezzo che all’epoca mi spinse a rinunciare a comprarmi la merenda per conservare i soldi per l’acquisto di questo album, “Time is running out”. È tra gli ultimi brani composti per Absolution. Durante la sua composizione il gruppo aveva idea di realizzare qualcosa simile a Billie Jean di Michael Jackson, ma successivamente l’idea fu abbandonata man mano che la struttura del brano veniva completata. Qualcuno lo definirebbe commerciale, qualcun altro griderebbe al distacco netto dal più progressive “Apocalypse”, io ne incito alla genialità per due motivi, la tematica e l’ispirazione del video. Andiamo per ordine, come direbbe la mia amica Federica “ognuno di noi ha un amico per ogni stato d’animo, tu per me rappresenti la libertà!”. Eccola la parola chiave: Libertà!, a tutti i costi oppure no? “Volevo la libertà. Legato e limitato ho cercato di rinunciare a te, ma sono drogato (di te)”, dice il buon Matteo. Per quanto riguarda il video, il focus è incentrato sull’idea di un governo segreto che – seduto intorno ad un tavolo decisionale – invece di pensare al benessere dello stato, è intento a perder del tempo. Una immagine ispirata da “Il dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba” del geniale Stanley Kubrick. Alzo la testina del giradischi e mi concedo una pausa di modernità, mentre sul mio smartphone carica il video di questo brano, sorseggio il mio grechetto, estasi in questa umida preserata.
Ecco “Sing for Absolution“, il pezzo che da una sterzata al mood dei primi due brani dove la parte strumentale è ridotta a pochi accordi di tastiere minimali e agli stessi giri di chitarra, in cui la struttura reale è dettata dalla voce di Bellamy, dai suoi falsetti in crescendo, insomma sono le sue corde vocali le vere redini dei brani, che quasi cantate a cappella potrebbero sortire un effetto quantomeno sorprendente. In quest’ultimo brano invece il finale melodico rende necessari anche gli altri due membri della band, rendendone degno omaggio. Una (quasi) title track lanciata come quarto singolo estratto, capostipite dell’immagine di un mondo cupo, contaminato, devastato, sull’orlo del baratro ecologico e sociologico, che fa da leit motiv all’intero album, prova a trovare una redenzione con questo brano. “Stockholm Syndrome” è un brano che rientra perfettamente nella casistica dei problemi sociologici appena menzionati. Musicalmente un pezzo in discesa rispetto ai brani precedenti, ma perla rara se paragonato a ciò che la discografia ci propinerà quindici anni dopo. Adesso mi rivolgo a voi, amici vinilici come me, quanto ne sappiamo davvero sulla sindrome di Stoccolma? A meno che fra di noi non ci siano degli psichiatri, penso poco. Così come poco ne saprà Matthew che ha avuto l’onestà di toccarla piano. Avete presente quando ne “La Casa de Papel” (Dio Netflix che tu possa essere lodato sempre, ogni giorno di questa vita, soprattutto d’inverno) Mónica Gaztambide – dopo che il rapinatore le sparò ad una gamba – si innamora del suo aguzzino? È egli stesso ad ipotizzare che quello della bionda ragioniera della zecca dello stato ispanico non fosse amore ma solo “sindrome di Stoccolma”, cioè fascinazione verso il responsabile della sottomissione psicologica. “Questa è l’ultima volta che ti abbandonerò, questa è l’ultima volta che ti dimenticherò. Spero di farcela” è la promessa del reo protagonista del brano. Ma senza troppo scandagliare nelle crepe della mia anima ritornata adolescente, si riprende con la successiva “Falling away with you” che segue la struttura di Sing for absolution partendo in sordina e accelerando nell’ ennesima grande progressione.
Fine del Lato A, guardo in fondo al bicchiere e ritorno a riempirlo, il “Grechetto dell’Umbria” di Scacciadiavoli è un vino bianco, fermo e secco, un caposaldo nella tradizione di questa cantina perugina, così come Absolution lo è nella discografia dei Muse.
Ritorno sulla mia amaca, via al Lato B. Normalmente le b-side sono canzoni riempitive, e invece questo capolavoro parte con “Hysteria”, pubblicato come singolo il 1 dicembre 2003, giorno a me caro, un compleanno in comune tra me e la mia patologia. Adagio si arriva a “Butterflies And Hurricanes“, forse il pezzo migliore del disco, solita progressione, ma rinvigorita e raffinata da un ottimo ed eclettico gioco strumentale, con la sezione ritmica che riesce a oltrepassare i limiti di un accompagnamento granitico ma un po’ ottuso e inserti pianistici che sembrano veramente rubati a Gershwin.
Il disco procede con i tre brani finali mentre al capolinea arrivano anche i miei pensieri. Perché le origini non bisogna dimenticarle mai e non importa quanta strada le nostre gambe riescano a fare e quanto lontano possano portarci, bisogna tener bene a mente quando è il momento di rincasare fosse anche il cuore di una notte. A casa dei miei genitori, fra le coccole di una amaca fronte mare, di mia madre che mi incita a svegliarmi presto e non rischiare di perdermi le albe che nascono ai piedi del mio letto, di mia nonna che mi spinge a non mollare e coltivare questa passione. Alle origini musicali. Per non scordare quanto inaspettata sappia essere questa vita e per sfidarla anche. Ancora una volta. Anche dopo quindici lunghi anni. Perché ho ancora qualcosa da raccontare. Perché le parole insieme alla libertà sono forse il più grande potere che abbiamo e sprecarne anche solo uno dei due vorrebbe dire darla vinta alla mediocrità. E di mediocre non posso permettermi nulla, nemmeno un ascolto sbagliato.
A cura di Fabiana Criscuolo

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