Non so se l’ultima fatica della band simbolo del metal italiano richiami Le otto montagne di Paolo Cognetti (Premio Strega 2017), ma entrambi condividono almeno un messaggio in comune: esiste sempre una speranza, una redenzione, una salvezza, dopo la disillusione.
Di questi tempi, parlare dei Rhapsody of Fire non è tra le imprese più facili. Dalla separazione Turilli/Staropoli del 2011, due band dall’aspetto simile hanno continuato a tracciare due percorsi paralleli con diverse accezioni del marchio Rhapsody.
Senza ricostruire l’intricata vicenda à la Gipsy Kings, mi limito a riportare soltanto l’ultima news di fine 2018, quando Turilli, Lione e buona parte dei membri originali hanno dato il via al progetto Turilli/Lione Rhapsody, mentre la band vera e propria capitanata da Staropoli annunciava l’imminente uscita del nuovo album.
Chi vi scrive preferisce non indugiare in dietrologismi o previsioni, buoni soltanto alle chiacchiere da rotocalco, e si limiterà a parlare del nuovo prodotto targato Rhapsody of Fire, composto, suonato e prodotto da professionisti di tutto rispetto.
The Eight Mountain è il risultato del lavoro di una line-up rinnovata nel giro degli ultimi due anni e mezzo: oltre al granitico Alex Staropoli dietro ai tasti, si confermano Roby De Micheli alle chitarre, Manu Lotter alla batterie, Alessandro Sala al basso. Al centro dell’attenzione, naturalmente, il talentuoso cantante Giacomo Voli, già frontman dei Teodasia e prima ancora finalista di The Voice Of Italy. L’avevamo visto cimentarsi, insieme ai nuovi membri, nelle sessioni di ri-registrazione dei pezzi storici della band in Legendary Years: il pacchetto suonava convincente, ma si parlava di materiale già confezionato.
A questo giro, si tratta di capire se c’è ancora l’ispirazione sufficiente a mettere insieme un intero album. A un primo ascolto, si nota l’impegno profuso nel nuovo progetto: una nuova saga fantasy (The Nephilim’s Empire Saga) su cui incentrare le liriche; una nuova orchestra da alternare al comparto metal; nuovi musicisti da coinvolgere nella composizione, ognuno con il suo mondo.

La copertina dell’album, a opera di Alex Charleux.
Detto questo, l’album si riconferma in tutto e per tutto un album dei Rhapsody of Fire. Perché questa tautologia? Perché sono decenni ormai che le variazioni al sound e all’approccio compositivo sono ridotte all’osso. Inutile girarci intorno: ascoltando quasi ogni singolo pezzo, se ne possono elencare almeno una decina con una struttura simile risalenti a cinque o a dieci anni anni fa. Certo, si nota qualche volta un mood più gelido e tagliente, come in The Frozen Tears Of Angels, oppure più oscuro, come in Dark Wings Of Steel, ma la ricetta è fondamentalmente sempre la stessa. Preso atto di ciò, si possono notare pacificamente alcuni elementi di freschezza che caratterizzano il nuovo progetto.
Il vero salto è portato dal mutato comparto ritmico che, guidato dalle ritmiche di Roby, introduce un riffing che alterna le usuali sfuriate power metal ad alcuni intermezzi di diversa origine: Seven Heroic Deeds mi ha francamente stupito, la ritmica guarda volentieri al metal estremo, e si lascia andare addirittura a brevi breakdown in palm mute di provenienza metalcore. Se già la sostituzione di Turilli aveva limitato l’elemento neoclassico (per fortuna), l’arrivo di Manu e Alessandro sembra confermare questa direzione. Come singolo di lancio, invece del troppo convenzionale Rain of Fury, avrei scelto questa traccia o la seguente Master of Peace, caratterizzata da un vero e proprio ritornello da stadio, che tra frasi altisonanti racconta il dramma familiare di una redenzione in chiave fantasy.
White Wizard è ancora sostenuta da ritmiche notevoli: il basso in particolare ha una sua personalità ben distinta. Veniamo finalmente a Giacomo Voli: la voce è sempre notevole, ma avrei osato di più. Le linee vocali scritte per lui ricalcano troppo quelle di Fabio Lione: il timbro è diverso, le potenzialità tante e i mondi da esplorari infiniti.
Lo stesso per la emozionale Warrior Heart, che sa davvero di già sentito troppe e troppe volte. L’ensemble barocco fa il suo, ma nella playlist delle mid tempo targate Rhapsody avevamo già The Village of Dwarves, Danza di Fuoco e Ghiaccio, A voice in the Cold Wind, eccetera, e non ne serviva un’altra.
La seconda parte dell’album conferma l’impressione della prima: le ritmiche sono fresche, ma ci si trascina avanti con una certa fatica: si gira e si rigira intorno a una melodia azzeccata che fatica ad arrivare. The Legend Goes On è finalmente un pezzo che obbliga a vari ascolti: il coro della intro à la Queen profuma di anni Ottanta, la strofa è ispirata, il cantante tira fuori dei vocalizzi notevoli e il ritornello è erede degno delle varie Emerald Sword dei passati vent’anni.
The Wind, the Rain and the Moon è la ballad dove finalmente ho sentito il vero Giacomo Voli, capace di emozionare e centrare il punto senza fatica: molto belli i falsetto alla Matthew Bellamy, perfette le voci armonizzate del refrain, e finalmente si riesce ad apprezzare a dovere il testo:
I’ll be the wind to caress your skin
I’ll be the rain to enclose your tears
I’ll be the moon to enlight your darkest night
So you won’t be alone, no more
I’ll be back before the snowfall
My fate cries out
I’ll win this war for you!
Anche l’assolo seguente è scritto con gusto senza sbrodolamenti di note inutili.
Arriviamo alla suite finale: mi ci sono approcciato con paura, ma Tales of a Hero’s Fate è passata abbastanza agilmente. Giacomo azzarda uno scream, riportandomi alla memoria quelle lontanissime voci di inizio anni zero che parlavano di un progetto “Rhapsody in Black” poi finito chissà dove. Nel frattempo, con una traccia di Sir Christopher Lee recuperata dal passato, il disco si chiude degnamente.
In definitiva.
Diversi anni e diversi dischi or sono, perso probabilmente in qualche antica foresta del mio cervello, già incasellai il suono dei Rhapsody nella categoria del ‘barocco’: sovraincisioni orchestrali in abbondanza, opulenza di suoni e ‘suonini’ (percussioni, flauti di pan, campanelle) distribuiti nel panning, il raccontarsi sempre altisonante e mai disimpegnato, citazionismo e autocitazionismo. Il missaggio è sempre pieno, sovrabbondante, e il mastering non concede momenti di riposo perdendo per strada gran parte delle dinamiche. Il pacchetto è sempre impeccabile, ma per essere digerito può necessitare di tempo. O di pesanti immissioni di tisana.
Senza dubbio il gradimento del pubblico è incentrato su questi elementi stabili, ma inevitabilmente alla lunga le strutture ricorrenti possono stancare. Visto l’impegno profuso nel rinfrescare il sound, e vista l’ormai lunga professionalità dei musicisti coinvolti, non posso che augurarmi sempre maggior coraggio nel cercare strade nuove.

Tecnico, Marinaio, Giornalista, Intellettuale, Intelligente… non sono niente di tutto questo.