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“Koinè” tra musica e napoletanità di Pellegrino & Zodyaco – INTERVISTA

by Alessia Andreon
Pellegrino & Zodyaco ph.Pepe Russo Fotografia taglio2 web

S’ intitola “KOINÈ” il nuovo album di Pellegrino & Zodyaco, che esplora il desiderio di evasione, ispirandosi al libro “Elogio della fuga” di Henri Laborit, che si basa sulla costante ricerca del piacere e la necessità di cambiamento insita nell’essere umano.

Dall’ album traspare un intenso lavoro di ricerca che è anche una celebrazione delle contaminazioni che spaziano dalla musica popolare al synth pop tra suoni elettronici, strumenti vintage ed etnici, che creano suggestioni profondamente radicate nella napoletanità, con una spiccata matrice dance.

L’album è stato anticipato nel 2023 dal singolo “Malìa”, mentre il 2024 sono usciti “L’Aura” (31 maggio) e “Saditè” (29 novembre). 

Abbiamo avuto modo di chiedere al produttore, DJ e songwriter, Pellegrino come sia riuscito, in questo suo terzo lavoro discografico, a mescolare nuove dimensioni compositive ad atmosfere che evocano suoni del passato.

INTERVISTA

Ciao Pellegrino,
“KOINÈ” si ispira a “Elogio della fuga” di Henri Laboritl. In che modo ha influenzato questo lavoro?

“Elogio della fuga” è un libro che ho letto nel periodo antecedente all’inizio del lavoro del disco e mi ha segnato in particolare una frase che ritengo identificativa: “In tempi come questi la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare”.

È una frase che mi lascia una sensazione di libertà, intesa come evasione da una comfort zone, per sentirci più a nostro agio. In questo caso, ovviamente, tradotto in musica era un modo per cercare soluzioni diverse, suoni diversi: guardare altrove, rimanendo legati alle proprie radici musicali.

Nel caso di Koinè, sicuramente, da un punto di vista istintivo, vuol dire essere più spontanei nella composizione, nella scrittura, evadere da quelle sonorità che, magari, fino a pochi anni fa, proponevo e che erano molto legate a una scena napoletana di un certo tipo, a un suono di un certo tipo, che è quello della rinascita del napoletan power, che è stato per me fonte d’ispirazione.

L’obiettivo era uscire da questi schemi e provare a esprimersi in maniera più spontanea.

Il titolo dell’album vuole sottolineare che vi è una lingua comune che è la musica, con la quale hai abbracciato il rischio del cambiamento per esaltarne il potere liberatorio.

A un primo livello di analisi è la musica, poi diventa il napoletano, che è una lingua comune che si ricollega al concetto di Koinè che, a sua volta, prende spunto da una citazione di Glenn Gould, compositore e pianista, che a un certo punto della sua carriera ha interrotto l’attività concertistica per dedicarsi solo al lavoro di studio, perché lo definiva come un chiostro, un embrione che protegge l’artista dal mondo esterno.

Eppure, da quell’isolamento, fioriscono relazioni sociali e una creatività assolutamente collettiva che permette di creare connessioni, linguaggi che esulano dalla musica e diventano legami, anche umani e personali.  E visto che la parte in studio è una componente importante del mio lavoro, ci tenevo a valorizzarla ulteriormente anche come concetto, oltre il linguaggio comune; diventa anche un contenitore.

È una sorta di viaggio alla scoperta della napoletanità nascosta o celata, come “Palepoli”…

Le radici sono assolutamente quelle della napoletanità, ma utilizzo anche l’italiano, perché io uso entrambe le lingue; inoltre, c’è un’esplorazione di sonorità che non sono solo legate alla tradizione della mia terra, ma che guardano alla World Music, alla disco music, al Jazz Fusion, al Punk e, ovviamente, tanta musica latina, perché poi tutte queste esperienze musicali fanno parte del bagaglio che mi porto dietro.

L’album è ricco di contaminazioni sia come sonorità che come strumenti utilizzati, dal synth a quelli vintage, percussioni etniche. Per dirla in termini astrologici, cosa congiunge le varie anime di questo album?

La ricerca sonora e quindi anche la strumentazione utilizzata, più che un feticcio, come spesso capita, è una necessità di riprodurre una sensazione che a mia volta ho percepito ascoltando quegli strumenti che mi hanno colpito e che provo a riportare nelle cose che faccio.

Secondo me c’è una grandissima linea che congiunge determinati strumenti che sono stati usati in “Palepoli” o in “Sirene” che sono classici della tradizione napoletana, ma in generale etnica, del Nord Africa, del Sud America, che vengono utilizzati con i synth.

In realtà c’è un suono organico che collega queste macchine a quegli strumenti della musica popolare per così dire, delle varie latitudini del mondo, e credo che questa commistione di strumenti possa portare a cercare stili ed estetica ma anche a creare un suono personale.

Ognuno di questi strumenti ha una sua personalità retrò e malinconica: io per esempio sono appassionato del piano CP degli anni ‘70, che ha un suono simile a quello del piano a coda e mi riporta immediatamente alle sonorità di quell’epoca, che mi piacciono tantissimo.

Tu hai vissuto a lungo a Berlino; ho pensato a un parallelismo tra te e “Mario”, un uomo disilluso da una città, che è anche o soprattutto un luogo dell’anima che non riconosce più?

Sì, sì, esprime un disagio esistenziale di un Mario che esiste solo nella mia testa, è un mio alter ego.

La mia esperienza berlinese gioca un ruolo in questo testo, che è un dialogo con sé stessi, quando ci si ferma e a ragionare con su ciò che si è diventati, su cosa si sarebbe potuti essere.

Penso che Mario esista in ognuno di noi e prima o poi dobbiamo farci i conti.

Tu che hai iniziato in tempi non sospetti a valorizzare la napoletanità facendo anche un lavoro di ricerca; cosa pensi della voglia di napoletanità che pervade la musica, ma non solo?

Napoli è una città che può avere luci ed ombre, come ho già avuto modo di esplorare nell’album “Quimere”.

All’improvviso è diventata di moda, pur non essendo mai passata di moda, perché una città come Napoli non può né essere di moda, né passare di moda, per il solo fatto che esiste.

Da sempre, Napoli, è stata fucina di talenti, di musica e di arte; è una città molto creativa perché è caotica e credo che il caos sia conditio sine qua non per la creatività.

Dopo la pandemia la città è profondamente cambiata e sta vivendo un momento di riscoperta, anche se oggi sta evolvendo in qualcosa di diverso, anche se ne sta risentendo in genuinità e in spontaneità.  

Quando abbiamo iniziato, tra il 2017 e il 2018, a produrre dall’estero un suono che si rifaceva alle nostre radici musicali degli anni settanta/ottanta in napoletano, eravamo degli outsider e non ci avrebbe creduto nessuno che oggi sarebbe diventata una vera e propria “scena”.

Sono contento di aver contribuito, anche con le etichette e col mio progetto, a diffondere questo approccio, perché negli ultimi anni poi sono sorti tantissimi progetti simili, quindi evidentemente esisteva questo bisogno, ma così come per la città, anche nella musica, va preservata la spontaneità della nostra lingua.

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