I God Is An Astronaut, nei loro quindici anni di carriera, ci hanno sempre deliziato con le loro atmosfere eteree e le loro melodie rarefatte e spaziali, intervallate da improvvise impennate di dinamica e muri sonori imponenti, intensi, duri e trascinanti.
Con Helios Herebus il cambiamento che la band era sul punto di affrontare, era già ben chiaro. Un incupimento delle sonorità, con aggiunta di elementi schiettamente progressive metal, si era già fatto sentire nel loro penultimo album che, attualmente, risiede tra le loro migliori opere assieme all’emblematico All Is Violent All Is Bright.
Ora, però, sulle sconfinate e aperte vallate sonore costruite minuziosamente album dopo album, la band Irlandese ha calato un pesante e malinconico velo nero, quasi una veste funerea da far indossare a qualcuno malauguratamente uscito dalla nostra vita per la porta principale. Proprio quest’ultimo elemento sembra aver ispirato maggiormente le sonorità e il concept di un album che, come ricordato dalla band stessa, vede la sua genesi nella morte o, per meglio dire, nello stato emotivo dovuto alla perdita di persone a noi care.
Con Epitaph, l’ultima fatica dei mastodonti della scena Post Rock, ci ritroviamo di fronte a pezzi dalle tonalità infinitamente più oscure, tendenti quasi al dark e gotico con non sporadiche spruzzate di eleganza pianistica dal gusto estremamente classico.
Elemento preponderante su tutti, in questo nuovo lavoro, è il grande utilizzo di sonorità tendenti al noise/ambient (vedasi i colleghi Goodspeed You! Black Emperor). In “Epitaph“, la traccia di apertura che da tra l’altro il nome all’intero lavoro, vengono esposti a modo di manifesto tutti gli elementi che la band Irlandese ha voluto approfondire ed esaltare nel suo nuovo long play.
Le composizioni sono lente ma impetuose, quasi tendenti a un mood epico, oscuro e tragico. L’utilizzo del pianoforte è accentuato in maniera notevole rispetto agli album precedenti, donando al tutto un profondo senso di raffinata malinconia e tristezza.
Proprio un pianoforte è lo strumento che apre al viaggio che ci porterà a scoprire le sette tracce componenti l’opera. Conduce, con le sue note minimali e malinconiche, l’ascoltatore attraverso l’intro della title track, lasciandolo poi in balia di un delirio noise dove cupe chitarre sature di distorsione scrivono l’epitaffio di una vita tragicamente giunta al termine.
Continuando a parlare di noise arriviamo a pezzi come “Medea“, “Komerobi” e “Oisin” (dedicata a un loro cugino, scomparso all’età di sette anni), il cui minutaggio è sostenuto quasi unicamente da un intelaiatura di pad e fugaci tocchi di pianoforte. I primi due sono pezzi lenti e minimali che riescono a trovare una risoluzione solo in finali dall’esplosività moderata. Il monopolio è prettamente tastieristico e gli altri strumenti riescono a trovare brevi momenti di esecuzione soltanto in prossimità delle conclusioni (esclusa Oisin, interamente eseguita da pad e pianoforte).
Con “Winter Dusk/Awakening” troviamo un pezzo pacato dove una batteria lievemente accennata conduce delicati arpeggi di chitarra, incrociati con un variegato set di suoni atmosferici e sintetici. La tranquillità apparente della prima parte del pezzo va poi a disperdersi con un lungo finale di stampo classicamente noise, cupo, epico e avvolgente.
Con “Mortal Coil” ritroviamo elementi affini ai God is an Astronaut di un tempo. Ritmi cadenzati, batterie incalzanti e ben scandite, intelaiature di chitarre clean e muri di pad si alternano a dure sezioni distorte. Vi è, però, anche in questa traccia la medesima cupezza di stampo gotico che pervade l’intero album dando a tutto un’atmosfera estremamente drammatica e teatrale.
In Seance Room, uno dei momenti più alti di Epitaph, troviamo un lungo crescendo di ben sette minuti. L’intro, affidato a fugaci note di chitarra e basso, rappresenta il punto di minimo slancio del pezzo. Poi, con il graduale aggiungersi degli strumenti, la dinamica va ad elevarsi fino a giungere a intervalli sorretti da organi/lead dal suono gotico e teatrale e duri e incalzanti riff metal. La risoluzione giunge con una lunga e caotica coda dove le sonorità vengono saturate fino allo sfinimento rendendo impossibile la distinzione tra i vari elementi strumentali, divenuti così autori di un calcolato chaos musicale.
In conclusione
con Epitaph ci ritroviamo di fronte a qualcosa di estremamente inaspettato. I God Is An Astronaut hanno avuto, con questo lavoro, la forza e il coraggio di rinnovarsi, sperimentare abbandonando parti del loro vecchio stile e tenendone e riadattandone altre. Il risultato di questo complesso processo di scomposizione e ricomposizione ha dato vita a un prodotto totalmente nuovo che non manca, però, di portare nelle sue melodie e scelte il marchio di fabbrica della band irlandese. Marchio individuabile, come sempre, nella loro musica riflessiva, sognante, intensa e dal grande potere comunicativo.
Voto – 7.5
Lorenzo Natali

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