Home RubricheApprofondimenti e Curiosità Francesco Guccini: instancabile poeta e narratore. Un viaggio nell’Italia “gucciniana” degli anni Settanta

Francesco Guccini: instancabile poeta e narratore. Un viaggio nell’Italia “gucciniana” degli anni Settanta

by InsideMusic
francesco guccini
Ha ormai smesso di scrivere le sue canzoni politiche, ma Francesco Guccini ironico e battagliero, resta uno dei padri fondatori della canzone d’autore, un caposaldo del cantautorato italiano. Un cantastorie moderno che insieme ad altri suoi colleghi, Fabrizio De André in primis, si è caricato sulle spalle il compito di traghettare negli anni Settanta il nuovo genere musicale, figlio del malcontento giovanile generato dall’Italia dei padri padroni del “miracolo” economico degli anni Sessanta.

Scese in campo nel 1967 con “Folk Beat n.1”, ma Francesco Guccini già da qualche anno prima aveva iniziato la sua rivoluzione artistica. Con brani come L’antisociale, Auschwitz, E’ dall’amore che nasce un uomo, Noi non ci saremo e la celeberrima Dio è morto, canzoni che poi furono prestate agli Equipe 84 e ai Nomadi, regalò ai giovani manifestanti, alla cosiddetta “generazione del Vietnam”, dei racconti nel quale specchiarsi e poter cantare la loro protesta. Delle storie che hanno fatto da cornice durante tutti gli anni dei movimenti studenteschi e che sono stati dei veri manifesti socio-culturali.

Già nel 1969 qualcosa si stava muovendo. I moti studenteschi, la strage di piazza Fontana, Woodstock, gli operai che scesero in piazza, l’autunno caldo degli scioperi, tutti segnali di forte cambiamento. E dopo il primo LP, Guccini pubblica “Due anni dopo”, che richiama e prosegue il lavoro precedente, ma rispetto al disco del ’67 troviamo nei testi un’accezione più narrativa, delle venature più intimistiche ed esistenzialistiche. Esce fuori l’esteta che è in lui. Ed è proprio in questo lavoro che inizia a pensare a come legare una canzone all’altra, creando quella sorta di filo conduttore che troviamo già nell’album più letterario, “L’isola non trovata”, e che poi diventerà il suo marchio di fabbrica inconfondibile.

Nel 1972 arriva il vero capolavoro, quello che a mio avviso è il suo disco più bello ed interessante. Un concept album ambizioso e radicale, “Radici”, in cui sviluppa a fondo un’unica tematica, un concetto appunto, lungo tutto l’arco del disco lasciando all’ascoltatore attento un’idea di fondo sostanziale. Un lavoro dalle grandi capacità creative e compositive, oltre che interpretative. Un disco attuale, senza tempo, universale nei contenuti. Ad appannaggio della “musica leggera”, quelle ad esempio cantata in quegli anni dai Pooh, Francesco Guccini sviluppa uno stile singolare intorno alla questione politica ed anarchica. Bellissima la sua tormentata La locomotiva, ballata cruda e delicata allo stesso tempo, dedicata all’anarchico ferroviere dell’Ottocento, Pietro Rigosi, che per ragioni misteriose, rubò una locomotiva per dirigersi verso la stazione di Bologna ma che poi si schiantò su un binario. Follia o atto politico? Una risposta ignara, un dubbio mai risolto su cui Guccini ha costruito il suo straziante racconto. Un album nato in mezz’ora e che non è altro che una conferma sulle sue capacità di fotografare la realtà, sulle sue abilità di captare e narrare i bisogni di una generazione in fermento, sulle sue capacità espressive notevoli e di saper dipingere a tinte forti le emozioni.

Seguirono altri album manifesto. Nel 1973 “Opera Buffa” fu un lavoro poco amato dallo stesso Guccini. Sulla stessa lunghezza d’onda fu anche il disco dell’anno dopo, “Stanze di vita quotidiana”, che spinse il cantautore modenese a chiudere definitivamente con il produttore Pier Farri che, per registrare il disco, portò addirittura in studio un suonatore di tabla e un guru indiano. Ma voi ce lo vedete il Guccini concreto, montanaro ed erudito degli anni Settanta suonare con un guru davanti?

francesco guccini anni settanta

Artwork di Opera Buffa

Le cose cambiarono nel 1976, anzi, tornarono al loro posto con “Via Paolo Fabbri 43” – tra l’altro il vero indirizzo di casa di Francesco Guccini, cosa che oggi sarebbe impensabile, ma a quel tempo si osava di più. Già nel 1961 Adriano Celentano fece una cosa simile quando scrisse Ragazzo della via Gluck, inserendo nel testo la via e il numero civico dell’abitazione di allora. Tuttavia, questo fu un lavoro felice, contenente delle vere pietre miliari del panorama artistico gucciniano. Tra tutte possiamo citare L’avvelenata, un brano più simile ad un trattato, incentrato sul senso di scrivere canzoni, sulla libertà di agire e d’esprimersi, contro l’estremismo dei critici militanti e contro i suoi “colleghi cantautori”. Una lettera personale, intensa e definitiva.

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Artwork di Amerigo

Gli anni Settanta per Francesco Guccini si chiudono con un viaggio in America, metaforicamente parlando. Attraverso un album, “Amerigo”, confronta il presente con il passato. La tracklist dell’LP è un racconto delle due Americhe, di quella sognata da bambino e di quella vissuta. Un’America diversa quella testimoniata da Guccini, non era quella immaginata attraverso gli occhi innocenti di un bambino, ma una Terra di illusioni, di fatica e sfruttamento: “L’America era Atlantide, l’America era il cuore, era il destino; l’America era Life, sorrisi e denti bianchi su patinata; l’America era il mondo sognante e misterioso di Paperino; l’America era allora per me provincia dolce, mondo di pace. “Fu lavoro e sangue, e fu fatica uguale mattino e sera, per anni da prigione, di birra e di puttane, di giorni duri, di negri e irlandesi, polacchi e italiani, nella miniera sudore d’antracite, in Pennsylvania, Arkansas, Tex, Missouri”.

 

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