Empath è l’ottavo album del Devin Townsend Project, l’incarnazione finale del camaleontico musicista canadese, fuori il 29 marzo per InsideOut.
Una delle cose più belle di Spotify sono le playlist personalizzate create dagli artisti. Un must per chiunque è quella di Devin Townsend, Ziltoid Radio: dagli Aqua ai Meshuggah, dai Kansas agli Eiffel 65. Diciamo che il buon Devin è uno che rifugge la definizione quantomai abusata di “amante della buona musica”: per lui non c’è musica bella o musica brutta, c’è soltanto creazione artistica ed espressione personale. Perché la musica, quando è incisa, seppur solo nella memoria dell’ascoltatore durante un mini live in uno sconosciuto pub di provincia, diviene dell’umanità stessa. E, si chiede Devin nel corso di venticinque anni di carriera, ha senso dare del “venduto” a chi fa pop? Del resto, piacere a tutti è la cosa più difficile che esista.
Devin non ha mai avuto problemi a sfondare. Anzi, a neanche vent’anni già era stato notato dal leggendario chitarrista Steve Vai: una voce squillante ma potente e virile, dotata di un’estensione di circa tre ottave, non si trova tutti i giorni. E di una personalità non comune: lunatico allo stremo, volubile; musicista certosino e animo sofferente. Soprattutto, io e Townsend abbiamo una cosa in comune: entrambi sentiamo le voci nei brusii dei ventilatori (ricordate Ocean Machine?).
Insomma, oltre agli Strapping Young Lad c’è un geniale cantautore, attento alla melodia come alla psichedelia e alle stramberie logiche del rock progressivo. Anzi, a volte soffro per gli strumensti Strapping Young Lad, costretti ai suoi ordini durante i primi duemila. E come dimenticare l’alieno Ziltoid l’Onnisciente.
Empath, che uscirà il 29 marzo per Inside Out, sua storica etichetta da solista, è l’ottava fatica del Devin Townsend Project, quell’incarnazione dell’eclettico del prog epico per eccellenza, quel Devin che riesce a scrivere senza droghe e che prestò la voce ad Ayreon. Empath, che segue Transcendence, del 2016.
Innanzitutto, la formazione. Perché il DTP non è formato solo da Devin, ma anche da una pletora di strumenisti vari, compresa Anneke Van Giersbergen dei giganteschi The Gathering alla voce femminile e nient’altro che il fu mentore Steve Vai alle chitarre, mentre la line up fissa è composta da Townsend stesso, da Nathan Navarro al basso, da Morgan Agren, Samus Paulicelli, Anup Sastry (dei Periphery e dei Monuments) alla batteria. Proprio Agren spicca fra tutti, come batterista di Frank Zappa.
Artwork e Tracklist di Empath di Devin Townsend Project (InsideOut)
01. Castaway
02. Genesis
03. Spirits Will Collide
04. Evermore
05. Sprite
06. Hear Me
07. Why
08. Borderlands
09. Requiem
10. Singularity Part 1 – Adrift
11. Singularity Part 2 – I Am I
12. Singularity Part 3 – There Be Monsters
13. Singularity Part 4 – Curious Gods
14. Singularity Part 5 – Silicon Scientists
15. Singularity Part 6 – Here Comes The Sun
Dunque, se Devin Townsend fosse nato stella, invece di umano, sarebbe stato una Wolf Rayet. Stelle gigantesche, caldissime, blu come il cobalto, che attirano tutto a sé e che distruggono – e creano nebulose in cui si nascondono – tutto attorno a sé con spaventosi venti solari. Eppure, il senso di Empath è tutto il contrario del solipsismi e del monadismo: è un’ode alla condivisione e al lavoro di squadra.
Il viaggio – anzi, l’esperienza – di Empath si apre con Cast Away, languide onde che bagnano spiagge lontane, e qualche nota appena accennata di chitarra – di quei giri che piacciono tanto, in realtà a John Petrucci dei Dream Theater. Gabbiani. Relax. Cocktail con gli ombrellini, sonorità hawaiane da villaggio vacanze o videogioco dei Pokèmon. E poi, eccola la stoccata di Devin: un coro gospel femminile che guida all’interno dell’avventura, verso Genesis.
Va beh, genere è solo una parola; in una tavolozza, solo uno dei mille colori disponibili. È questo il senso degli effetti elettronici 8 bit di Space Invaders, dei cori femminili, dei sussurri e dei virtuosismi prog di chitarra che compongono il brano; il refrain in doppia cassa, poi, è sognante e death metal allo stesso tempo. Si odono echi degli ultimi Unexpect, dei Diablo Swing Orchestra, ma tutto ciò sarebbe riduttivo. Townsend è un Dio che enumera incazzato tutto ciò che vuol far nascere: luce, morte, pianeti, cagnolini, gattini, hamburger, piramidi e mammut.

Schermata tipica di Space Invaders, videogioco più che quarantenne.
Senza abbassare neppure un po’ l’asticella su cui è scritto con caratteri gotici “livello di maestosità” approdiamo a Spirits Will Collide, e si ode un sentore un po’ anni ’80, un po’ power, così tanto di moda attualmente. Townsend non è immune al romanticismo, e sublimi cori femminili – la cui frase musicale è ispirata palesemente ad Only Time di Enya – spianano la strada al suo cantato aggressivo quanto attento alla melodia. Le innumerevoli chitarre presenti in Empath aprono Evermore, che diviene poi una mini-suite barocca, sorretta da tastiera vibrante: una formula sdoganata dai Queen con A Night at The Opera e che continua ad impressionare e far sognare. Evermore, poi, è probabilmente il brano più tipicamente prog dell’album: cambi di ritmo, operazioni di ossessive ripetizioni delle stesse battute e frasi musicali – proprio come dice il titolo. Il che ci riporta ad un’altra delle passioni di Townsend: la skeletal techno, basata proprio sulla successione matematica.
Vi ricordate papà Castoro? C’è spazio anche per la narrazione della favola prima di andare a dormire, in Empath, e parliamo di Sprite: favola che inizia in modo abbastanza deprimente, in quanto narra di un triste uccellino orfano incapace di volare. La rivincita sulla vita da parte del mesto e disperato animaletto è dunque il quarto brano di Empath, una successione di bellissime stramberie fatte di growl, la voce di Anneke, sezioni operistiche di marcetta all’italiana, effetti di tastiera perennemente mutevoli, estremamente sospesi quanto elettrici – come se il suono ci giungesse in corrente continua e non alternata.
Un po’ confusi, andiamo sulla metal avantgarde – un po’ speed metal, un po’ sofferente – Hear me. Anneke canta un lied che assomiglia a un mielasma furibondo:
All the world is bleeding
cui fa immediatamente eco lo scream di Townsend, per una commistione di gothic oscuro (quello ormai fuori moda, dei capelli tinti di nero, le borchie, e tutti gli annessi e connessi) e gargantuesche aperture fra le nubi tempestose fatte di accordi maggiori e fiati aggiunti in fase di produzione che donano continuità ad un brano che definire avanguardistico è poco. Torna la doppia cassa che mancava da Genesis e viene da domandarsi se è fisicamente possibile leggere e suonare a prima vista uno spartito simile.
Why? è la vera sorpresa di Empath. Un’operetta, né più né meno, di Vivaldi. C’è chi dice che il compositore italiano sia stato il primo progger, per la sua rielaborazione del classico tradizionale La Follia: e Why non è da meno. Accorata richiesta di chiarimenti da parte della donna che l’ha abbandonato, dopo metà brano di cantato puramente di Townsend intervengono i cori femminili a rispondere – come sul palco di un teatro dell’opera. Il climax si raggiunge quando la voce tenorile del Nostro sorregge l’intero impianto scenico da solo: e non posso descriverlo a parole. Gustatevelo.
Il canto di un gallo, chitarrina country, uccellini che cantano: Borderlands. Forse il videogioco GDR, quello con Jack il Bello, sull’aggressivo pianeta Pandora e con le strane armi che fanno esplodere ogni cosa. E i cacciatori della cripta, ovviamente. Elementi elettronici apparentemente a caso, nella parodia del prog ultratecnico degli anni ’00 e del vocaloid dei compositori giapponesi.
Ad ogni modo, il metal si esaurisce con Borderlands, e Requiem ci trascina – forzatamente, come un oscuro traghettatore sull’Acheronte – verso il nucleo ferroso ma pulsante di Empath: Singularity. Cos’è una singolarità? Il punto dal quale in poi una funzione, teoricamente costante e continua, degenera. Beh, un buco nero è una singolarità gravitazionale, oltre il suo orizzonte degli eventi, il confine entro il quale la materia non ubbidisce più alle leggi newtoniane. E allo stesso modo, le onde placide svaniscono e cadono oltre le colonne d’Ercole, accarezzate dai cori femminili e dalla dolcezza della voce di Devin; che, nel secondo movimento, esplode in acuti e portentoso cantato. Singularity è un mini-album in sé, perché il terzo movimento è debitore di soundtrack hollywoodiane per costruzione dell’arrangiamento e sentore complessivo. A metà brano ci si calma, torna il mare appena increspato, salvo poi la comparsa del growl più aggressivo dai tempi degli Strapping Young Lad: la cattiveria di un buco nero che tutto fagocita. Per poi evolvere in jazz e found music alla Brian Eno, e la melodia fatta di abcchette e strumenti inadatti viene trasdotta poi in orchestra, chitarra, batteria, per poi sconfinare in stramberie inerarrabili capaci di coniugare i Dragonforce con i Dimmu Borgir e gli Abba. Il finale di Singularity, dopo tanto peregrinare per galassie musicali sintoniche e sensoriali, torna nei ranghi melodici ed una sorpresona alla chitarra: il mentore Steve Vai.

Il gatto spaziale postato da Townsend su Twitter per l’uscita di Empath.
Dunque, Empath è un’analisi del concetto stesso di “far musica” e della sua potenza espressiva. Un album riguardante il potere della buona musica, qualunque essa sia: può essere colonna sonora di nascita, morte, può far nascere frattali; cervelli, piante, radici, camaleonti, pianeti, astri, abissi marini e kraken – tutti ballano sulle stesse frequenze. In definitiva, qui prodest dar definizioni? Godetevi quello che l’arte trasmette, qualunque essa sia: non c’è bello o brutto. Il genio non è sempre riconosciuto immediatamente, l’essere un classico si manifesta coi secoli – a seconda dell’unità di misura utilizzata.
E Devin Townsend, con Empath, ha dimostrato tutta la grandezza della sua mente.

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