Home Interviste Digging New York: intervista a Danno Colle der Fomento, Daniele Guardia e Frank Jerky per parlare del film documentario sull’hip hop

Digging New York: intervista a Danno Colle der Fomento, Daniele Guardia e Frank Jerky per parlare del film documentario sull’hip hop

by Arianna Orlando

Due sere fa abbiamo avuto il piacere di fare quattro chiacchiere con alcuni dei protagonisti di “Digging New York“, un film documentario sull’hip hop tra poco disponibile online, anche se già proiettato in tutta Italia da più di un anno. All’interno dello Zoobar, una location caratteristica del quartiere Montesacro di Roma, ci accolgono – prima della diretta di Welcome 2 the Jungle – Danno Colle der Fomento (protagonista del film), Daniele Guardia (produttore esecutivo) e Frank Jerky (produttore della crew insieme a Stefano Lemon e Daniela Croci).

“Digging New York”  è un viaggio negli States alla scoperta delle radici dell’hip hop. Il film è stato presentato al Corto Dorico Film Festival di Ancora, in occasione di un focus dedicato al rap e street art. Il protagonista è appunto Danno, rapper dei Colle Der Fomento, che racconta attraverso i suoi viaggi ed i suoi incontri come questa cultura sia nata a New York. Nel suo peregrinare molti i confronti con artisti, ma molti anche gli incontri con la gente del posto che rappresenta l’anima di questa cultura urbana sempre in movimento.

Ma lasciamo la parola ai protagonisti che ci hanno raccontato tutto quello che c’è da sapere sul film.

  1. Raccontateci da cosa e da chi di voi tre parte l’idea di realizzare il film-documentario “Digging New York”?

Daniele: Il film è nato per una combinazione di cose. Diciamo che l’ispirazione è stata una dichiarazione di Paola Zukar, della Big Picture Management, a seguito dell’uscita nel 2012 del documentario “The art of Rap”. Disse che il rap stava iniziando in quel momento. Questo è stato l’incipit; poi il fatto di aver vissuto una crescita dentro una trasmissione come Welcome 2 the Jungle, unito alla passione per la città di New York, ha fatto sì che le cose si sono fondessero l’una nell’altra. Speravo di far vedere a tutta quella generazione dalla seconda metà degli anni Novanta – che è cresciuta con la moda dell’hip hop – la storia senza filtri che c’è dietro questo genere. Non siamo partiti con il presupposto di insegnare qualcosa, abbiamo solo aperto la finestra su una realtà­.

All’inizio era solo un’idea, un embrione. Non avevo le idee chiare per una una sorta di superficialità che si ha vivendo in Italia. Il viaggio è stato una scoperta e una scommessa per tutti. Abbiamo dato attraverso la spontaneità del film una visione diversa. Chi lo guarda riesce a mettersi nei panni di Danno, nel nostro viaggio a New York.

Sia Danno che Frank hanno accettato con lo stesso trucco, senza sapere cosa avremmo fatto, ma sapendo che qualcosa alla fine avremmo fatto.

Danno: In realtà era un’idea, era una bellissima idea. Ci è piaciuta tanto e abbiamo deciso di farla.

Frank: Io non avevo idea di quello che stavamo facendo.

In coro: Nessuno aveva idea.

  1. Data la natura del film, siete partiti all’avventura o avete pianificato tutte le scene?

Danno: Siamo partiti un po’ all’avventura, un po’ sapendo a grandi linee quello che volevamo fare, ma poi non lo abbiamo fatto. Abbiamo fatto altro. Avevamo buttato giù delle cose scritte per dare un senso, un inizio e una fine; in realtà ci siamo accorti dopo in fase di montaggio che mancavano dei pezzi. Abbiamo fatto un lavoro quasi al contrario senza più basarci su quello che avevamo scritto. Abbiamo visto quello che avevamo girato e cosa ci piaceva, cosa no. L’abbiamo strutturato in base al materiale che ci sembrava valido. Fondamentalmente è nato molto in freestyle. Poi Daniela e Stefano ci hanno molto aiutato molto a livello organizzativo per tracciare una mappa. Gli unici incontri fissati sono stati con Mr Kaves, Ricky Powell Jadon.

All’inizio volevamo partire da Roma. Avevamo girato una bellissima scena che rifaceva il verso a “La 25ª ora” di Spike Lee, dove io dalla radio lanciavo una serie di vaffanculo a tutto quello che non mi piaceva. E sembrava dicessi “vaffanculo a come parlano di New York, vado a scoprire cosa c’è lì perché mi sono rotto dell’hip hop visto solo dall’Italia.” Peccato che alla fine del viaggio nessuno di noi si fosse accorto che non avevamo fatto una ripresa di noi che scendevamo dall’aereo.

Poi siamo andati nel quartiere di “Fa’ la cosa giusta” per parlare con le persone del quartiere. Mentre stavamo girando, Spike Lee ha fatto la stessa cosa, ovviamente meglio perché è Spike Lee, ritornando in quel quartiere. Perciò tutta quella cosa è stata buttata via.

  1. Tutti gli incontri con le persone o con i rapper locali sono stati freestyle?

Danno: Sì, 9 su 10 sono stati freestyle. Magari sapevamo chi c’era e chi cantava in quel posto però siamo andati allo sbaraglio.

Daniele: a Staten Island eravamo lì a guardare i graffiti e abbiamo incontrato Lounge Lo, che ci ha invitato a questo barbecue dove stava girando il video musicale. Quello è stato totalmente casuale ed è una delle scene più belle del film. Per me nella scena in cui la ragazza balla e il bambino si avvicina alla telecamera c’era poesia e spessore.

Danno: Io avevo accettato subito di fare il film, poi però più si avvicinava il momento più i dubbi su quello che stavamo andando a raccontare aumentava. Poi appena arrivato, è bastata una prima ora di camminata a New York per scioglierci e ho iniziato a fare freestyle. Per fortuna facendolo da quando sono ragazzino, ed essendo il freestyle una dimensione di improvvisazione, mi ci riesco a ritrovare. Forse ha anche funzionato.

Tutto quello che avrei voluto chiedere alle persone che ho incontrato non gliel’ho chiesto. Quello che mi è venuto da chiedere sono sempre le due-tre domande, sempre le stesse, un po’ balbettandole con una sorta di riverenza e timore. Però, più che quello che chiedo, ha colpito il fatto che si vede che sono veramente emozionato di stare lì e di parlare con quella gente e che quando ci divertiamo ci stiamo divertendo veramente. È tutto molto spontaneo. Io apprezzo quello del film, mi piace molto quella spontaneità, quella freschezza.

  1. Ho notato come nel film emerga un legame fortissimo negli Stati Uniti dell’hip hop con la gente, con il quartiere, con la città. Come riportate questo al vostro modo di vivere l’hip hop qui in una città come Roma?

Danno: Quella è una di quelle cose che non ci immaginavamo. Si sapeva ascoltando le canzoni, ma ci ha proprio colpito. Il fatto di dare da mangiare alle persone del proprio quartiere e che tutti sono partecipi, le mamme, le nonne. Quello lo abbiamo scoperto lì e abbiamo deciso di porre l’accento su questa cosa perché ci ha colpito più di altre.

Per quanto riguarda Roma, ormai le cose sono simili un po’ in tutto il mondo. L’hip hop è diventato un pop mondiale. Non c’è città, paese, stato del mondo dove non ci sia qualcuno che fa rap. Prima era diverso. Sicuramente io e la mia generazione l’abbiamo vissuto in maniera particolare. Molto attaccata alla propria comunità, ma non la comunità come la intendono loro. Io nel quartiere ero ovviamente deriso perché ascoltavo quel tipo di musica e mi vestivo in quel modo. Era una cosa che non veniva capita, al massimo la gente pensava a Jovanotti. Ti parlo a tutta la prima metà degli anni Novanta finchè non sono esplosi gli Articolo 31, Frankie hi-nrg, Neffa. Eravamo visti come dei personaggi strani, bizzarri. Ascoltavamo una musica di cui non gliene fregava niente a nessuno. Quindi quella musica non poteva avere quel valore di raccontare una comunità. Prima di tutto perché sono diverse le comunità in Italia; c’è molta meno vita di strada. In America si usa fare il barbecue davanti casa. In Italia al massimo fai la comitiva sul muretto. Però è una cosa diversa, meno legata al concetto quartiere.

Quando io mi sono approcciato all’hip hop eravamo 40 che venivano da 40 posti diversi a Roma. Il nostro punto di ritrovo era Piazzale Flaminio. Noi avevamo la nostra comunità, però era una roba di appassionati di un genere musicale e di un movimento super di nicchia. C’è un affetto tra di noi ancora oggi, però è diverso. Sentivamo queste storie di Queens contro Bronx, di Bronx contro Brooklyn. Mentre noi eravamo massimo 40 persone, perciò non potevamo – pur volendo – fare un discorso di questo tipo. Ce lo siamo vissuti dive

rsamente. Mentre lì l’hip hop era portavoce della comunità locale a cui l’hip hoppers apparteneva, in Italia in un primo periodo porta

va la voce solo della comunità stessa dell’hip hop.

  1. Pensi sia cambiatoil modo di vivere l’hip hop?

Danno: Sì, adesso va di moda, ci fai una carriera, ci fai successo, piace, è un modo per mettersi in mostra e sicuramente è un modo per esprimersi. Però se io oggi avessi 15 anni non sceglierei l’hip hop. A me l’hip hop è sembrato qualcosa di unico, di magico, il tesoro sommerso. Oggi invece è alla portata di tutti, te lo mettono in qualunque film, in qualunque pubblicità perché è l’ultima musica che ancora vende un po’. È la musica che piace di più ai ragazzini. Se io oggi fossi ragazzino non vorrei essere uguale a centomila coetanei. Quindi sicuramente sceglierei un’altra cosa. In quel periodo della mia vita a me serviva per avere un’identità mia. Dire “questa musica l’ho scelta io, perché in radio non passa, in televisione non la vedi. I dischi arrivano in un negozio in tutta Roma, massimo in due e devo fare chilometri per andare a trovare quei dischi”.

  1. Nel film, infatti, viene affrontata spesso la tematica del mainstream, di come l’hip hop sia cambiato anche in America e cosa significa diventare commerciale per un genere come il rap. Come vedi il fatto che il rap sia arrivato ai ragazzini e a livello commerciale?

Va bene, non è che noi volevamo rimanere sconosciuti. Certo quando scopri quel tesoro un po’ ti rode che tutti cominciano a metterci le mani. Ma va bene. Se c’è una cosa che non mi piace o mi piace meno in Digging New York è una mia retorica dettata dall’inesperienza e dall’imbarazzo di improvvisarmi giornalista che mi ha un po’ limitato. Non sono riuscito a dire tutto quello che avrei voluto dire. Mi sono un po’ inchiodato su quel discorso di “The real hip hop is still alive?”.

Proprio quell’anno, tornato da New York e caricato da quell’esperienza, ho cominciato ad ascoltare la roba nuova che è anche più mainstream con un altro orecchio. Mi è servito Digging New York per capire certe robe nuove. Ho capito delle cose che non sono riuscito a metabolizzare subito per cambiare la mia retorica. C’è un momento in Digging New York in cui dico che in Italia ancora ascoltiamo i Gang Starr e Public Enemy e che per noi sono i numero uno. Non è vero, preso dall’emozione, gli ho sparato i primi due nomi fin troppo classici. In realtà nel corso degli anni ho trovato dei nuovi number one. In quel periodo stavano esplodendo Joey Badass, Bronson, Roc Marciano, Meyhem Lauren. Nomi che invece non sono riuscito a cogliere lì a New York perchè pur conoscendoli non li avevo digeriti. Perciò in quel discorso sul mainstream-underground c’è un po’ di retorica che personalmente già non mi appartiene più. Sono delle etichette. Ho scoperto che molti artisti americani avrebbero voluto essere mainstream; semplicemente non hanno venduto tanto e sono rimasti underground, ma non è quello il motivo per amarli. Il motivo per amarli è la loro musica e quello che dicono.

  1. In una scena del film King Just dice “l’importante è che le persone sentano quello che diciamo”, come se fosse superata questa idea del mainstream. In Digging New York sono emerse delle critiche alle etichette discografiche italiane che non vanno più ai concerti a cercare giovani talenti. Se voi foste dei discografici quale rapper emergente decidereste di produrre.

Daniele: Rancore, anche se pur essendo giovane è già famoso da tanti anni.

Danno: William Pascal o il collettivo Do Your Thang. Loro mi interesserebbero molto, perché sono un bel collettivo, già vanno bene con le loro gambe, li vedo focalizzati e hanno quello spirito hip hop. Per quanto riguarda l’America io darei tutti i miei soldi, anche se non è un nuovo talento, è Da Rockness Monstah degli Heltah Skeltah, soprattutto dopo la perdita di Sean Price. Fra i nomi nuovi butterei tutti i miei soldi su Meyhem Lauren, ma non mi rientrerebbe nulla perché è uno veramente underground.

  1. Anche nel film hai sottolineato più volte come tu, con Il Colle Der Fomento, sia autoprodotto. Spiegaci il perché di questa scelta. Immagino ti saranno state offerte delle opportunità di collaborazione con etichette, come mai hai scelto di autoprodurti?

Danno: Ostinazione e testardaggine. Io lo capisco quando mi dicono che l’etichetta mi serve, però io non ci sto a dargli qualcosa di mio. Prima andava bene perché non potevi farti un disco da solo. Avevi bisogno di una struttura dietro per una questione tecnica. Era difficilissimo autoprodursi il disco, dovevi avere un sacco di soldi.  Oggi non è così, se sei bravo e organizzato con un team di gente con cui lavori puoi fare tutto o quasi tutto da solo.

È una cosa di mentalità, dell’idea di non voler essere di nessuna etichetta. Nonostante questo noi ogni volta ci facciamo un giro delle etichette, ma quello che loro mi offrono non mi va bene. Per quello fatto ieri io sono contento; ho un bellissimo rapporto con la nostra vecchia etichetta, la Irma, perché ci ha prodotto dischi che noi da soli non avremmo potuto fare, però quello dopo – Anima e Ghiaccio – ce lo siamo fatti da soli.

Non riceviamo costantemente telefonate per farci fare contratti, perché abbiamo molto la nomea di quelli che dicono no e che non ci compri né con i soldi né dicendoci di “diventare famosi”. Ci comprerebbero forse facendoci altri discorsi che non ci hanno mai fatto. Ma stiamo imparando a fare da soli, sbagliando, ma stiamo imparando. Siamo consapevoli, ma nonostante questo siamo soddisfatti dei nostri risultati. In più io conservo questa idea che magari è solo una chimera di avere una quota di libertà maggiore rispetto ad un mio collega che ha dato tutto in mano ad altri che decidono cosa fare della propria musica.

  1. Quindi con la vostra esperienza potendo consigliare ad un ragazzo che si sta approcciando a questo mondo consigliereste di autoprodursi o di affidarsi ad un’etichetta? Pensi poi sia utile fare un’esperienza fuori come la vostra a New York ?

Danno: Per me andare a New York è stato vedere come facevano certe cose lì e come funzionava. Io ho sempre imparato osservando gli altri e ascoltando gli altri. A me viene voglia di scrivere una canzone quando sento una canzone che mi piace, quando una frase di un libro mi colpisce e mi viene voglia di scrivere una frase più bella di quella.

Per le etichette dipende da come ognuno preferisce muoversi e dalle esigenze che ha. Io non consiglierò mai etichetta o autoproduzione, ognuno sa quello che vuole fare. C’è chi non vuole occuparsi di nulla e chiudersi solo nello studio a registrare e quindi ha bisogno di un’etichetta, c’è invece chi impazzisce se gli cambiano qualcosa di suo quindi deve controllare tutto. Però questo non è un consiglio che posso dare io che in 20 anni di carriera ho fatto 3 album, siamo un gruppo anomalo. Io posso dare consigli su come si sta sul palco, su come si organizza uno show.

L’unico consiglio che posso dare è quello di ascoltare il più possibile la musica bella e di vedere un sacco di concerti. Questo è il mio unico consiglio.

  1. Quali sono gli artisti che avete conosciuto a New York che vi hanno maggiormente colpito e sorpreso?

Danno: Sicuramente Jadon ci ha colpito umanamente a livello di attitudine, ma in generale tutti. Mi ha colpito King Just che ci ha raccontato del fatto che non faccia più rap, ma che scrive ancora. Ha detto: “Io mi definisco il segreto meglio custodito di Staten Island”. Da questo vedi che non è solo una questione di soldi. C’è gente che non vedrà mai un soldo da questa musica, che è anche stata importante per un periodo e non si è depressa, non si è scoraggiata, non si è incattivita. Lo fa per il piacere di farlo.

A me ciò che ha colpito di più è la gente. È stato bellissimo vedere ai boot camp le signore di cinquant’anni commuoversi. Abbiamo incontrato delle persone che, in un secondo, hanno capito che noi stavamo lì con uno spirito genuino, che non stavamo lì per fare gli sciacalli su qualcosa che non capivamo. Dopo due scambi di parole la prima diffidenza è diventata amicizia, io sono diventato uno di loro. Mi sono sentito parte di quella cosa.

  1. Quando sarà disponibile online Digging New York? E come mai avete scelto di metterlo online gratuitamente?

Daniele: Si prospetta entro fine febbraio. Per il momento l’abbiamo proiettato durante manifestazioni o festival quasi in tutte le regioni. La prima è stata a Perugia, ad aprile 2016. Non ci aspettavamo tutto questo successo. Lo metteremo online gratuitamente perché è stato il primo patto che ho fatto con Danno. Abbiamo messo tutti insieme le forze per fare questo prodotto.

  1. Avete intenzione di tornare in America?

Frank: C’è un’idea di fare la stessa cosa nella West Coast, ma è solo un’idea al momento.

  1. Pensi che sarebbe possibile fare un “Diggin New York made in Italy”?

Daniele: Non so se sarebbe fattibile. Al momento non è facile, ma non impossibile.

Frank: Secondo me sarà fattibile tra qualche anno. È ancora troppo presto. Anche i fan devono invecchiare per riconoscere la bellezza del rap italiano. Bisogna aspettare i nonni che ascoltano rap, come in America.

Intervista di Arianna Orlando

Fotogallery di Laura Sbarbori

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