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God Is An Astronaut sul palco di Villa Ada! Il racconto dello show

by Luca.Ferri
God Is An Astronaut

Per cominciare: i God is an Astronaut sono una band post rock. Genere sconosciuto ai più, forse per diffidenza nei confronti di quella mancanza, quella voce assente. Quello che in molti ignorano è la fantasia che deriva dalla privazione, che spinge a creare forme, suoni, colori, sconosciuti prima. E che fa sognare chiunque, perché parla una lingua universale.

I God is an Astronaut sono una band che dà un fil rouge ad ogni proprio album. Il tema di Helios/Erebus, l’ultima fatica, è la crisi e come la società moderna cerca, a suo modo, di affrontarla. Ma, soprattutto, i God is an Astronaut sono una band irlandese. Un’isola verde permeata da una cultura unica, da un folklore ancora radicato nei suoi abitanti. Gli irlandesi sono permeati da una passione non comune, che nasce dalla poca fecondità della loro terra, dal cielo nuvoloso, dalle colline che si perdono a vista d’occhio. Un calore che nasce da dentro e che rinfocola la voglia di vivere.

L’atmosfera, a Villa Ada, immersa nel canto delle cicale e nel lieve fruscio della brezza sul laghetto, è bellissima. Siamo circa un migliaio di appassionati, accorsi da tutta italia. C’è una grande intimità, una sottesa comunione d’intenti e di volontà di godersi un concerto unico. Una birra, una chiacchiera, una sigaretta, e scende il tramonto. L’aria si rinfresca, e la folla aumenta. Spunta qualche stella in cielo, uomini incappucciati eseguono un ultimo soundcheck.

Eccoli arrivare sul palco. Quattro figure che ricordano dei folletti, rossi di capelli, che imbracciano chitarre, basso, e bacchette da batteria. Si parte lentamente, Pig Powder è un magistrale intreccio di delicati arpeggi di chitarra, fino ad arrivare ad un crescendo di distorsioni; il suono non è più etereo, il cuore cambia battito assieme alla doppia cassa del magistrale Lloyd Hanney alla batteria. Segue Age of the Fifth Sun, un excursus fra soli stanchi, i cui riff centrali si caricano della rabbia di un mondo che finisce mentre altri stanno a guardare. It’s very warm for us, here, dice Torsten Kinsella, ma non c’è un attimo di respiro e già si parte a suonare la potente Echoes, che ricorda un po’ i Mogwai dei tempi migliori, un po’ una ballata folk rock, un po’ la eco che resta dopo il crollo di una civiltà: gloriose rovine illuminate e nient’altro. La chitarra di Kinsella canta come una donna anziana scottata e delusa, e ci trascina tutti con sé. Eppure, subito, ci si raffredda con la gelida Snowfall, corde appena pizzicate e piatti sfiorati; ora c’è la neve che cade su quelle rovine, e sembra quasi di sentirla sulla pelle: tanto è grande il potere di far sognare di questa band. Il ritmo aumenta, e il vento con esso. Ci si agita, sul palco e sotto di esso.

L’eleganza di Vetus Memoria, la traccia successiva, è la stessa delle stelle cadenti. Si presenta con un suono ricco di promesse, una ballata struggente trascinata dal pianoforte suonato dall’istrionico Jamie Dean, che si divide fra sintetizzatore e chitarra, una mano sulla tastiera ed una sulle corde. Il concerto ha oramai preso il volo. Il pubblico segue rapito, e attorno a me vedo espressioni ammirate e deliziate, stupite dalla bravura di una band così piccola, dalla carica emotiva che ogni canzone sa trasmettere. E se, finora, la rabbia è stata l’emozione eletta, con Worlds in Collision si passa all’analisi della forza della giornaliera ripetizione: effetti elettronici e chitarre distorte sorrette da una batteria pressante, ed, infine, uccise da delicati archi e poche note ripetute al pianoforte, che fuggono via.

La maestosa Helios Erebus stupisce all’improvviso, coglie impreparati sia per lunghezza che per qualità dell’esecuzione live, quasi nove minuti di riff e batteria impazzita, di delicati vocalizzi, di bassi che affondano fin nel petto e scuotono da dentro: un enigma che si sviluppa rapidamente, e tanto rapidamente ci si arrende dal risolvere, perché in Helios Erebus i God is an Astronaut riescono a porre domande silenziose al pubblico su galassie luminose, su nebulose pulsanti. Il sudore degli interpreti gocciola sugli strumenti ma il ritmo non rallenta, e si passa a Red Moon Lagoon: mai traccia fu più azzeccata per la location. Il pubblico, finalmente, dimentica smartphone e, forse, per un attimo, la propria vita al di là di quel prato: al crescendo, cade uno scroscio di applausi. Il suono trasuda colore in dinamiche accelerazioni, note che incutono timore per la chiarezza con la quale descrivono una violenza, che, forse, deve ancora consumarsi. E, sempre più scossi, ecco che Torsten ci annuncia la traccia più nota: All is violent, All is bright. Silent night, holy night. Come una filastrocca natalizia ambientata su un pianeta alieno e completamente gelato: un’opera d’arte che si può capire solo se si riesce ad apprezzare la solitudine.

L’eterea Fragile (ordine inverso rispetto all’album) conchiude la pallida violenza della traccia precedente, una scelta stilistica impeccabile: vocalizzi sussurrati e una melodia trascinante. Ogni tanto Torsten ringrazia per il calore dimostrato dal pubblico, ma non si può fare altrimenti: l’ammirazione per la bravura della band è enorme, e anche per la magistrale gestione delle tracce. Si passa da Centralia, purtroppo poco riuscita e appartenente all’ultimo album, per approdare sulle spiagge desolate descritte da Forever Lost, altro grande classico della band. Il piano del sempre più carico Dean, col suo minimalismo, apre le porte al canto della chitarra, perché nell’arte dal vivo dei God is an Astronaut è sempre lei a far da padrona.

Forever Lost ci ricorda delle cose perdute ma non dimenticate, di memorie crepuscolari. E da esse si levano le polveri di From Dust to Beyond, e, purtroppo, si comincia ad avvertire l’imminente fine dello show. Il batterista si lancia in un assolo da manuale, Torsten prende di nuovo la parola, e sembra quasi fuori luogo in questo lungo viaggio silenzioso. Rimangono solo due canzoni, ci dice. Parte così Route 666, un elogio proprio ad un viaggio in America fatto dalla band, incalzante mix di effetti elettronici sincopati e batteria martellante che ci guida alla traccia finale. Suicide by Star, ci dice Torsten, non è altro che la lunga agonia di un corpo celeste, stanco di brillare, sempre solo. Eppure, noi, non siamo stanchi neppure durante questa tragedia cosmica, neppure quando i cambi di ritmo merito della doppia cassa di Hanney appaiono interminabili.

La potenza del suono (complice anche l’impeccabile impianto di amplificazione) Tutto finisce, dopo più di due ore, letteralmente volate, cullati dalle note ora dolci, ora violente ed illuminate, dei God is an Astronaut. Ora, più che mai, hanno dimostrato come la loro forza sia nella semplicità, nella ricercatezza, nell’immediatezza che nasce dal minimalismo: le emozioni non hanno bisogno di parole, di voci, perché è la melodia a parlare. Assistere a questo concerto è stata una rivelazione, una catarsi: questa piccola band irlandese è riuscita a rendere universale, a comprendere e comprimere galassie, pianeti, quasar, buchi neri, tempeste infuocate, bufere di neve, sterminati prati verdi e cuori che battono nelle loro canzoni. Alla prossima data italiana!

Giulia Della Pelle

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